“Undici agnelli”; così furono definiti da uno dei loro carnefici i giovani di Monte Bottigli, ragazzi semplici d’origini umili e sentimenti antifascisti che, all’indomani dell’armistizio dell’otto settembre 1943, rifiutarono l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana e si dettero alla macchia.
Una scelta forte, coraggiosa e rischiosa, pagata con la vita in quei tristi anni in cui al fascismo repubblicano asservito al regime nazista, si contrapponeva l’avanzata Alleata appoggiata dalle bande partigiane, portatrici dei valori di libertà, giustizia e democrazia.
Un fermo rifiuto della guerra e delle armi, la volontà di non macchiarsi del sangue dei propri fratelli mettendosi al servizio di un regime privo di legittimità, il desiderio di continuare a godere i frutti della propria giovinezza nell’attesa dell’agognata Liberazione; questi sono gli ideali incarnati dai “Martiri d’Istia”, non partigiani combattenti ma esempio di una Resistenza civile e passiva degna di esser ricordata in quest’epoca di facili revisionismi.
“Essi partirono in guerra contro il regno della morte, Essi contribuirono ad uccidere il regno della morte, illuminati da un purissimo pensiero di giustizia, di libertà e di democrazia”; con queste parole li ricordò Emilio Zannerini nel 1945.
Disertori, clandestini e renitenti; in una parola “pacifisti” consci dei rischi che correvano per il loro secco no al ritorno del fascismo e all’occupazione tedesca.
Già nel bando d’arruolamento del novembre 1943 erano previste misure di rappresaglia per evitare le evasioni al reclutamento, che andavano dall’arresto dei familiari del renitente al rastrellamento: in campo nazionale su 180.000 precettati se ne presentarono circa 87.000. Al successivo bando (8/2/1944; classi 1922-’23 e 1° quadrimestre del 1924) seguì un decreto di Mussolini (18/2/1944) che comminava la pena di morte mediante fucilazione ai renitenti e disertori. Una vasta campagna di propaganda fu attuata per dare la massima diffusione al decreto; la Resistenza serrava le file ma le misure del Ministro della Difesa RSI Graziani, per soddisfare le richieste tedesche e reclutare la Guardia Nazionale Repubblicana, non rimasero infruttuose.
La paura per la pena di morte, un movimento partigiano ancora in fase organizzativa e le difficoltà dell’avanzata alleata, contribuirono all’arruolamento nella RSI; anche per questo oggi è lecito ricordare chi ebbe la forza di schierarsi dalla parte della libertà. E’ il debito di riconoscenza verso chi, in diversi modi, ha contribuito alla liberazione dal nazi-fascismo e alla nascita dell’Italia repubblicana e democratica.
I fatti
Questa triste vicenda ebbe luogo a Maiano Lavacchio, frazione collinare del comune di Magliano (Gr) contraddistinta dalla folta macchia di Monte Bottigli e da numerosi poderi (fra questi gli “Ariosti” dove vivevano i fratelli Biagi; il “Lavacchio” tenuto dai Corsetti; la “Sdriscia” della famiglia Matteini e l’ “Appalto” gestito da Settimo Andrei e Teresa Biagi, principale luogo di ritrovo della comunità poichè scuola, bottega e sala da ballo).
Si trattava di una zona piuttosto isolata e difficile da raggiungere, che divenne presto meta di ex-soldati del Regio Esercito, renitenti e clandestini che si unirono agli sfollati giunti da Grosseto e Roma per timore dei bombardamenti.
Questi “refrattari”, la cui permanenza in zona fu favorita da alcuni elementi quali Agenore Matteini e il poeta Mario Cipriani, svolgevano lavori agricoli presso i contadini che li ospitavano, ricevendo in cambio un piatto caldo ed un modesto alloggio.
La situazione fu piuttosto tranquilla fino al febbraio 1944, quando i bandi fascisti divennero sempre più minacciosi e il decreto del prefetto Ercolani, diffuso ovunque, minacciò di passare per le armi i partigiani catturati unitamente alle famiglie ospitanti.
Per questi motivi alla fine di febbraio gli 11 giovani decisero di nascondersi fra gli “scopi” di Monte Bottigli, dove costruirono due capanne tra gli inviti alla prudenza degli adulti.
Si trattava di antifascisti di umili origini, legati tra loro da vincoli di parentela o amicizia, renitenti alla leva o fuggiti dall’esercito dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943.
Essi erano privi di armi e collegamenti con le bande partigiane della Provincia (vi sono solo testimonianze di incontri con alcuni membri del CLN provinciale quali Angiolo Rossi e Pietro Verdi, infruttuosi per il passaggio alla lotta armata), non avevano quindi una gerarchia militare e non compirono mai atti di sabotaggio e agguati. La decisione di darsi pacificamente alla macchia comportò però dure privazioni e molti rischi, in quanto i fascisti repubblicani assimilavano tutti gli imboscati a partigiani combattenti. Nonostante tali pericoli, i “ragazzi” (così furono sempre ricordati nelle testimonianze orali della gente che li conobbe) si mossero spesso dal loro rifugio verso Istia e i poderi, sia per le provviste sia per vivere gli anni più belli della loro giovinezza.
Iniziarono così a diffondersi voci menzognere sulla costituzione del gruppo di ribelli arnati; la Prefettura di Grosseto, per volere del capo della provincia Alceo Ercolani, del federale Silio Monti e del vice questore Liberale Scotti, incaricò la spia catanese Lucio Raciti d’investigare sui renitenti di Maiano Lavacchio.
Quest’ultimo, la mattina del 19 marzo, si presentò al podere degli “Ariosti” ed incontrò Angiolo Biagi, da poco reduce dalla campagna di Russia, facendosi credere un ex-combattente del fronte russo in fuga dai fascisti ed in cerca d’ospitalità. Biagi cadde nella trappola e nel pomeriggio ricevette la visita inaspettata di Mario Becucci, un decoratore 38enne d’origini spezzine e idee repubblicane, sfollato a Istia e in cerca di una guida per Monte Bottigli, in quanto colpito da mandato di cattura.
All’imbrunire giunsero all’ “Ariosti” anche alcuni ragazzi delle capanne, i quali incontrarono il Raciti fornendogli importanti informazioni.
Quella notte il siciliano dormì nella stessa stanza col Becucci, mentre i “ragazzi” si diressero ad una festa all’ “Appalto”, per poi far ritorno nel bosco.
La mattina seguente la spia inventò una scusa per non dirigersi alle capanne, e s’affrettò a comunicare le informazioni ricevute ai suoi “committenti”, non presentandosi nemmeno in serata come promesso.
I “ragazzi” iniziarono a insospettirsi e montarono una tenda militare in luogo più sicuro, senza predisporvi però un’adeguata vigilanza.
La notte del 21 marzo i fascisti giunsero all’ “Ariosti” per la resa dei conti e, dopo aver saccheggiato il podere e picchiato selvaggiamente alcuni membri della famiglia Biagi, costrinsero due ex-marinai cagliaritani che lì dimoravano la notte (Piria e Careddu) e Adelmo Biagi, a condurli alle capanne per arrestare i “ragazzi”.
Vano fu il tentativo di Palmira Biagi Guidoni, madre di uno dei renitenti, di scappare attraverso la copertura del tetto per avvisare del pericolo il figlio e gli altri; un fascista la vide e la fermò.
La spedizione (circa. 140 uomini) composta da una colonna di guardie nazionali repubblicane, un plotone di polizia, un nucleo di carabinieri e alcuni soldati tedeschi, era capeggiata dal cap. De Anna, il commissario di PS Scalone e il sottotenente Muller. Nel frattempo gli altri poderi della zona (l’ “Appalto”, il “Lavacchio” e la “Sdriscia”) furono accerchiati e perquisiti da altri fascisti, allo scopo di evitare che qualcuno facesse fallire la sorpresa avvisando i renitenti.
Alle cinque e mezzo del mattino i fascisti raggiunsero l’obiettivo e intimarono la resa ai “ragazzi” colti nel sonno; le capanne furono subito devastate e i prigionieri, che non opposero alcuna resistenza in quanto disarmati, dopo esser stati spogliati di ogni bene furono allineati in fila indiana e caricati dei materassi, le coperte e altri indumenti.
Durante il tragitto verso il “Lavacchio” uno di loro, il disertore austriaco “Gino”, si dette alla fuga imitato da altri tre suoi compagni. I fascisti aprirono il fuoco; solo il primo riuscì a fuggire, mentre gli altri si riconsegnarono in seguito alla minaccia dell’immediata fucilazione dei prigionieri.
Irritati dalla scomparsa dell’austriaco, i rastrellatori si macchiarono di altri tristi imprese prima al “Lavacchio”, dove fu pestato un innocuo garzone, e poi al “Bonzalone”, dove i militi s’accanirono sul Becucci. Divisisi poi in due gruppi (uno comandato da Monti e De Anna, l’altro dal podestà Pucini), i fascisti coi prigionieri giunsero all’ “Appalto” e, dopo aver fatto sgombrare la scuola, si servirono dell’aula per inscenare il processo farsa dove furono imputati gli undici giovani insieme a Piria, Careddu, Francesco Biagi e Ermenegildo Corsetti, gli ultimi due accusati per detenzione di due fucili. All’invito a parlare rivolto dal Monti, il più anziano del gruppo, l’idealista Becucci, si alzò in piedi, subito zittito dallo stesso Monti con la sprezzante frase: “Tu hai parlato anche troppo, vigliacco. Taci”.
Dopo soli venti minuti fu decisa la fucilazione degli 11 giovani, mentre Biagi, Corsetti e i due sardi furono assolti. Seppur tenuti all’oscuro del verdetto, i “ragazzi” si abbracciarono in preghiera, mentre Lele Matteini scrisse sulla lavagna l’ultimo saluto alla madre: “Mamma: Corrado e Lele, l’ultimo bacio”.
Una scena straziante precedette il momento funesto; Dora Sandri, la madre dei due Matteini giunta affannata dalla “Sdriscia”, si gettò ai piedi dei carnefici implorando di esser uccisa al posto dei figli, respinta dai fascisti: “Se eri un uomo invece che una donna…”.
Il plotone d’esecuzione, comandato da Inigo Pucini, era sicuramente composto da De Anna, Del Canto, Raciti, Gori, La Monica, Giannini, Guidoni e il carabiniere Pasqualetti di Pisa; i “ragazzi” furono condotti fuori dell’aula alle 9,10 e barbaramente trucidati tra le urla e i pianti di familiari e amici, tenuti forzatamente lontani dalla scena.
Compiuto il misfatto, i fascisti si abbandonarono a una macabra danza e urla di gioia. Poco dopo, l’infida colonna ripartì abbandonandosi alle solite intemperanze e trasportando sui carri i beni razziati dai poderi.
Il triste evento fece piombare la cittadinanza nel dolore e nel cordoglio, il giorno seguente si svolsero i funerali nel cimitero d’Istia d’Ombrone, celebrati dall’energico Don Mugnaini nonostante i tentativi d’impedimento dei fascisti. La sera del 23, l’unico superstite “Gino” uscì dalla macchia e fu aiutato a vivere in clandestinità per alcune settimane dalle famiglie della zona. In seguito fu “adottato” dai Grazi di Cinigiano, che lo considerarono come un figlio. “Gino”, pittore, affrescò la cappella dove riposa Alfiero Grazi; circa cinque anni dopo tornò in Austria e di lui non si ebbero più notizie. Una splendida storia contrapposta agli orrori della guerra.
Il 26 marzo il capo della Provincia Alceo Ercolani scrisse un’orribile lettera per il Comando della GNR, il cap. De Anna, il sottotenente Muller, il questore e i carabinieri, ben lontana dalla verità dei fatti e retorica nell’esaltare: “… la tempra d’acciaio dei Comandanti e dei gregari. Penetrando in fitto bosco il Cap. De Anna e il Sottotenente Muller unitamente ai loro uomini, dopo aver superato molte difficoltà, riuscivano a sorprendere nel sonno un gruppo di bande armate .
Il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire dall’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno. La fucilazione degli 11 elementi trovati con le armi, ha fatto rifulgere la decisione, il sangue freddo e la saldezza della fede fascista dei Capi e dei gregari tutti.
Intanto esprimo il mio vivo plauso e prego nel tempo stesso il Comandante della G.N.R. ad inoltrarmi, per il Cap. De Anna, per il Sottotenente Muller e per chi ha meritato, la proposta di ricompensa al valor militare e i nomi di quei gregari che maggiormente si sono distinti, per un premio in denaro. Prego inoltre volermi inviare la relazione sul brillante fatto d’arme.
Il Capo della Provincia, Alceo Ercolani. Paganico, 26/3/1944”.
Il 31 marzo lo stesso Ercolani ordinò l’affissione in tutta la Maremma di un macabro manifesto in cui si dichiarava la fucilazione degli 11 ribelli “armati”: “…S’avverte ancora una volta che chiunque sarà trovato armato o si unisca alle bande, che tanti delitti d’innocenti vittime stanno perpetrando nella nostra provincia, avrà con certezza lo stesso destino”.
Dopo la liberazione della Provincia si registrarono episodi di vendetta; alcuni fascisti ritenuti responsabili della strage di Maiano Lavacchio furono uccisi senza processo.
Il 18 dicembre 1946 la Corte d’assise di Grosseto emanò la sentenza contro i fascisti repubblicani della Provincia; per i fatti di Monte Bottigli furono condannati a morte: la spia Lucio Raciti; Michele De Anna, cap. della GNR; Vittorio Ciabatti, ten. della GNR, Sebastiano Scalone, commissario di PS, Inigo Pucini, podestà di Grosseto; Alfredo Del Canto e Armando Gori, militi del plotone d’esecuzione.
Nella sentenza i giudici smontarono la tesi difensiva dei fascisti, che tendeva a far ricadere le responsabilità del rastrellamento e dell’uccisione degli 11 giovani sul comando tedesco. Nessuno dei condannati fu giustiziato.
Le vittime
MARIO BECUCCI: nato a La Spezia nel 1906, si trasferì a Grosseto nel 1924. Decoratore, appassionato di caccia e opera, era un convinto mazziniano. Alla caduta del fascismo (25/7/1943) fu protagonista di una rissa memorabile coi fascisti in un bar del centro. In seguito si fece notare per aver strappato la “cimice” allo squadrista Pucini, futuro podestà di Grosseto. Sfollato a Cinigiano, dette ancora prova di antifascismo contestando apertamente il convegno della propagandista Grazia Licheni Sarda (27/2/1944). Colpito da mandato di cattura, il 5 marzo una squadra fascista al comando del federale Monti perquisì e mise a soqquadro la sua casa di Cinigiano; Becucci nel frattempo era sfollato a Istia dove conobbe i “ragazzi” ai quali s’unì in clandestinità. Idealista e sognatore, era considerato il ”babbo” del gruppo.
ANTONIO BRANCATI: nato a Ispica (Ragusa) nel 1920, era iscritto alla Facoltà di Medicina. Allievo ufficiale di fanteria, nel 1943 faceva parte dei Gruppi di organizzazione del Comando militare di Grosseto. Dopo la dissoluzione dell’Esercito, rifiuto di servire il fascismo e fu accolto al podere “Sdriscia” dai Matteini. Salito alle capanne di Monte Bottigli nel febbraio ’44, scrisse una toccante lettera ai genitori prima della cattura: “…Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non aver commesso nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria. Voi potete dire questo sempre a voce alta dinanzi a tutti. Se muoio, muoio innocente…”.
RINO CIATTINI: Nato a Grosseto nel 1924, operaio. Timido e gentile, rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò e si dette alla macchia nel gennaio 1944, giungendo a Maiano Lavacchio dove s’unì ai “ragazzi”.
ALFIERO GRAZI: Nato a Cinigiano (Gr) nel 1925, studente. Renitente alla chiamata alle armi della RSI, fu arrestato nel dicembre 1943 e tradotto nelle prigioni di Siena e Firenze, da dove riuscì a fuggire. Tornato a Cinigiano, riparò a Istia nel podere di Palmira Guidoni per poi nascondersi a Monte Bottigli.
SILVANO GUIDONI: Nato a Istia (Gr) nel 1924, ragioniere e amico del Grazi. Contrario alla RSI, non rispose alla chiamata alle armi e riparò a Maiano Lavacchio. Dopo la cattura da parte dei fascisti, riuscì a scappare nella macchia ma si riconsegnò in seguito alla minaccia di fucilazione degli altri prigionieri.
CORRADO MATTEINI: Nato a Istia (Gr) nel 1920, commerciante di carni. Militare per quattro anni in Sardegna, dopo l’armistizio tornò a casa nel podere dei genitori (la “Sdriscia”) fino al febbraio ’44, quando raggiunse Monte Bottigli.
EMANUELE MATTEINI: Nato a Istia (Gr) nel 1923, maestro dall’ A. S. 1942-’43. Esonerato dal servizio militare, condivise l’esperienza del fratello Corrado nella macchia di Monte Bottigli. Nell’ aula dell’”Appalto” scrisse alla lavagna l’ultimo toccante messaggio alla madre.
ALCIDE MIGNARRI: Nato a Istia (Gr) nel 1924, operaio alla fornace di S. Martino. Convinto antifascista, fu brutalmente percosso da un certo Bonaccorsi durante le “istruzioni premilitari”.Alla fine del 1942 fu incorporato nel 7° battaglione d’artiglieria di stanza a Pisa. Dopo lo sfascio dell’esercito tornò a casa e trascorse alcuni mesi fra i poderi di Maiano Lavacchio, fino al febbraio 1944 quando raggiunse le capanne di Monte Bottigli.
ALVARO MINUCCI: Nato a Istia (Gr) nel 1924, rifiuto d’arruolarsi nell’esercito di Salò. Visse in clandestinità prima a Poggio Cavallo e poi alla “Sdriscia” dei Matteini, dove scavava le fosse per le vigne, dormendo sopra il forno di pane. Nel febbraio ’44 passò alla capanne di Monte Bottigli.
ALFONSO PASSANNANTI: Nato a Battipaglia (Sa) nel 1922, maestro e studente universitario, fu allievo ufficiale nell’esercito italiano. Dopo l’armistizio rifiutò la Repubblica di Salò e raggiunse Istia col Brancati, dove fu ospitato dai Matteini fino al febbraio ’44.
ATTILIO SFORZI: Nato a Grosseto nel 1925, studente di ragioneria. Antifascista, non rispose alla chiamata alle armi della RSI e il 27 dicembre 1943 riparò dagli Andrei, amici di famiglia, a Maiano Lavacchio. A fine febbraio si trasferì coi “ragazzi” nelle capanne di Monte Bottigli. Per rendere omaggio alla sua memoria il suo nome fu preso da un distaccamento della formazione patriottica “Alta Maremma”.
“Umile era stata la nascita di quei coraggiosi e modesta la loro esistenza, ma sublime, grandiosa e fulgida la loro fine”. Manfredo Magnani
Riferimenti bibliografici:
M. Magnani: “La strage di Istia d’Ombrone”, Grosseto, Il Grifone, 1945
C. Barontini, F. Bucci: “A Monte Bottigli contro la guerra: dieci ragazzi, un decoratore mazziniano, un disertore viennese. Fra oralità e storia”, Follonica, La ginestra, 2003 “In ricordo degli 11 martiri fucilati il 22 marzo 1944 a Maiano-Lavacchio”, Grosseto, ANPI, 1981
N. Capitini Maccabruni: “La Maremma contro il nazi-fascismo”, Grosseto, La commerciale, 1985
Sentenza emessa il 18 dicembre 1946 dalla Corte d’assise di Grosseto contro i fascisti repubblichini della provincia, Grosseto, ANPI
( Scheda di Marco Grilli – Pubblicazione su www.radiomaremmarossa.it per gentile concessione di Matteo Liberti dal sito www.instoria.it – Grazie ad entrambi ).
Appendice:
Lettera di Antonio Brancati
[Fronte]
Carissimi Genitori
Non so se mi sarà possibile potervi rivedere, per la qual cosa vi scrivo questa lettera.
Sono stato condannato a morte per non essermi associato a coloro che vogliono distruggere completamente l’Italia.
Vi giuro di non aver commessa nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria.
Voi potete dire questo sempre a voce alta dinnanzi a tutti: se muoio, muoio innocente.
Vi prego di perdonarmi se qualche volta vi ho fatto arrabbiare, vi ho disobbedito ero allora un ragazzo. Pregate solo sempre per me il buon Iddio.
Non prendetevi parecchi pensieri, fate del bene ai poveri per la salvezza della mia povera anima.
Vi ringrazio per quanto avere fatto per me e per la mia educazione.
Speriamo che Iddio vi dia giusta ricompensa.
Baciate per me tutti i miei fratelli Felice, Costantino, Luigi, Vincenzo e Alberto e la mia cara fidanzata. Non affliggetevi e fatevi coraggio, ci sarà chi mi vendicherà.
Ricompensate e ricordatevi finché vivrete di quei Signori Matteini per il bene che mi hanno fatto, per l’amore di madre che hanno avuto nei miei riguardi. Io vi ho sempre
[Retro]
pensato in tutti i momenti della Giornata.
Dispiace tanto che non ci rivedremo in questa terra, ma ci rivedremo lassù, in un luogo più bello, più giusto e più santo.
Ricordatevi sempre di me.
Un forte bacione
Antonio
Sappiate che il vostro Antonio penserà sempre a voi anche dopo morto e che vi guarderà dal cielo