ROCCASTRADA. CRONACA DI UNA STRAGE di ROBERTO CANTAGALLI
Dino Perrone Compagni (1) aveva scritto al sindaco di Roccastrada in Maremma la solita lettera minatoria, celebre ormai perché, mutate date e intestazione, l’avevan ricevuta o stavan per riceverla sindaci e assessori di tutte le amministrazioni rosse della Toscana. La lettera in questione, mandata in questo caso al falegname Natale Bastiani, sindaco di Roccastrada, nel tono tra altezzoso, irridente e paternalistico tipico del marchese, era così concepita:
«dato che l’Italia deve essere degli Italiani e non può quindi essere amministrata da individui come voi, facendomi interprete dei vostri amministrati e dei cittadini di qua (cioè di Firenze) vi consiglio a dare entro domenica 17 [luglio] le dimissioni da sindaco assumendovi voi, in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone. E se ricorrete all’autorità per questo mio pio, gentile e umano consiglio, il termine vi sarà ridotto a mercoledì 13, cifra che porta fortuna».
Il sindaco si era rivolto alla prefettura di Grosseto mostrando la lettera intimidatoria e ne aveva avuto assicurazioni di pieno appoggio; a buon conto, inoltre, il maresciallo dei carabinieri aveva ricevuto rinforzi. Roccastrada, centro relativamente piccolo (circa duemilacinquecento abitanti nel capoluogo), aveva in quei giorni in caserma, per ogni evenienza, un presidio di tredici carabinieri. Nulla poi era accaduto, le giornate del 13 e del 17 erano trascorse da una settimana. Nel frattempo era sopravvenuto il fatto di Sarzana. I fascisti fiorentini — si pensava — in questo momento hanno ben altro per la testa. S’era finito col non pensarci più.
All’alba del 24, verso le cinque, venticinque squadristi di Grosseto, cinque di Firenze, una quarantina di Pisa, di Montespertoli e di altre località: settanta uomini in tutto, suddivisi in due camion, arrivano sulla piazza del paese cantando Giovinezza. Era domenica e quasi tutti dormivano ancora.
Guidava la spedizione il segretario del fascio di Grosseto nonché delegato della segreteria regionale toscana (come dire il fiduciario personale del marchese Perrone Compagni), il fiorentino ex capitano di complemento Dino Castellani. Di quest’ultimo avremo occasione di riparlare, ma per presentarlo in breve diremo solo che nel 1925, quando la polizia si dava da fare per dimostrare in qualche modo di voler assicurare alla giustizia gli uccisori dell’antifascista Gaetano Filati, fu presentata alla vedova la fotografia di Dino Castellani perché essa lo denunziasse come uno degli sparatori: «Se lei lo riconosce — le dissero — noi le saremo grati, tanto, il Castellani con diciannove omicidi che ha già sulla coscienza può sobbarcarsi comodamente anche questo». Ma, caso strano, di quel delitto il suddetto sicario, amico intimo del Dùmini, non era colpevole e l’ingrata vedova Filati non credette di rendere al fascismo fiorentino (che tanto l’aveva beneficata) quel piccolo favore di barattare un assassino per un altro: anche se in cambio le promettevano via libera per l’espatrio.
A Roccastrada, quella mattina, richiamati da quel canto tristamente famoso, molti spiavano dalle impannate socchiuse o dalle persiane, col cuore sospeso. Quasi subito i fascisti si misero all’opera. Un primo gruppo, spinse il camion a marcia indietro e lo mandò ad urtare con violenza contro gli sporti di un negozio di un orefice ed orologiaio, un certo Ferdinando Tagliaferri, reo di non condividere gli ideali degli avversari. Abbattute a colpi di calcio di moschetto le vetrine sventrate e traballanti, la bottega fu spogliata di tutti i preziosi, il banco e le masserizie furono gettati in piazza e con un bidone di benzina si portò a termine l’impresa. Altri forzarono il Caffè dell’Isola, ritrovo dei sovversivi, o per meglio dire della gente del paese e dei dintorni. Quattro fascisti, improvvisandosi camerieri, misero in funzione la macchina da caffè e stapparono bottiglie per rifocillare i camerati a mano a mano che tornavano allegri e rumorosi dalle visite domiciliari: erano stati a casa del sindaco, di alcuni assessori (che non si erano fatti trovare) e di diversi altri. Gli appartamenti erano stati liberati — attraverso le finestre — di tutti gli oggetti più ingombranti, destinati ad alimentare i falò accesi nelle strade. Gli squadristi non avevan messo tempo in mezzo: un paio d’ore e tutto era sistemato. Avrebbero potuto dirsi soddisfatti, ma il sindaco Bastiani non s’era lasciato beccare. All’ultimo momento era saltato giù da una finestra che dava sul retro della casa e si era dileguato nel bosco, vanamente inseguito da colpi di rivoltella.
I tredici carabinieri, chiusi in caserma e muti come pesci, non avevan visto, non avevan sentito, non avevan fatto nulla. Inutile avvertirli, tempestarli di suppliche. Dietro la reticella del portoncino bigio, misterioso come un monaco di clausura, si affacciò un momento un militare in maglietta a dire che non erano in forze sufficienti, che attendevano rinforzi, che bisognava evitare inutili provocazioni, che, d’altra parte, essi attendevano ordini.
Ormai i fascisti erano tutti radunati in piazza. Diedero l’ultimo tocco, l’ultima «sistemazione» al caffè dei sovversivi, per ringraziamento dell’ospitalità ricevuta. Gran fragore di motori. La compagnia riunita sui camion intonò l’inno degli arditi; saranno state le sette o poco più quando si avviarono in direzione di Sassofortino.
Per un bei po’ si udì il canto e il rombo dei motori sempre più lontano nell’aria fresca del mattino. Infine sembrò di sentire un indistinto crepito d’armi da fuoco, molto lontano. Poi più nulla e tutto finalmente fu in pace.
La gente fissa in silenzio e con occhi attoniti le scaglie biancastre della cenere che aduggia l’ultimo fuoco e soffoca i fumacchi; piovono dall’alto le pellicole nerastre dell’incendio. E’ passata anche questa (non era la prima volta che a Roccastrada venivano i fascisti). E’ passata anche questa, da mezz’ora. Che pace! Non c’era che un ronzio, come d’api… un po’ meno lontano… Sembran motori. Senza dubbio sono autocarri di carabinieri che vengono di rinforzo, al solito, a cose fatte. Ecco però che arriva di gran corsa un gruppo di ragazzi: nella voce e negli occhi è tornato il terrore. «I fascisti! I fascisti! Fuggite! Fuggite! Sono i fascisti un’altra volta!» Di colpo la piazza è un deserto; la gente si barrica meglio che può nelle case o se la da a gambe nei campi, nei boschi e nelle macchie.
Alla borgata detta il Convento, dove sono le prime case del paese dalla parte di Sassofortino, arrivano a passo lento i due camion di poco prima. Bene in vista, disteso sul primo camion, in mezzo a un bandierone tricolore, c’è un giovane, uno di loro, con una gran chioma bruna ma bianco in volto come la cera. Dalla bocca scende un rivolo di sangue.
Si fermano con una violenta strappata di freni. Hanno le facce contratte, livide, stravolte. Saltano giù con voci rauche, affannate. Gridano:
«Vigliacchi! vigliacchi! Venga fuori chi ha sparato!» Non che cerchino risposta. Si precipitano verso le prime case. Sfondan le porte a calci di moschetto, a spallate, a colpi di bomba: nulla regge di fronte a quel cieco furore, a quella sete di sangue. Scalpiccio di scarponi per le erte scale delle povere case. Urla bestiali, pianti di donne, una calca, un serra serra improvviso come quando s’ammazza il maiale nell’aia. Non si spara, si punisce al modo che si usa coi traditori, «a ferro freddo», come insegna D’Annunzio. Quattro uomini cadono crivellati, scannati nelle loro case, sotto gli occhi delle donne e dei ragazzi; un altro è inseguito e raggiunto nella sua affannosa fuga in istrada e resta lì bocconi abbandonato in un lago di sangue. Non vogliono discolpe, non vogliono saper nulla;i sovversivi non interessano, uccidere vogliono, chiunque, basta siano uomini, anche vecchi, molto vecchi, come il Fabbri, come il Regoli, che hanno tutti e due settantanni, e son repubblicani come tanti in Maremma.
Avanzando nel centro del paese, gli squadristi ammazzano altri quattro uomini, tra cui un vecchio di sessantanni e il suo figliolo, due agricoltori che hanno sempre visto come il fumo agli occhi leghe e Camere del lavoro; uccidono nella propria casa, sotto gli occhi della moglie giovinetta sposata da pochi mesi e incinta, un giovane muratore, ex combattente e decorato. Non risparmiano neppure uno storpio: in mezzo al petto gli descrivono una pittoresca rosa di revolverate con un colpo al centro per amor di simmetria. I morti, secondo un primo calcolo sommario, furono una decina e altrettante, non meno, le case bruciate.
Carabinieri non se ne videro per il paese se non verso l’una, quando finalmente giunse da Siena un camion col capitano Ziccardi e una trentina di militi. Il comandante dei fascisti gli va incontro coi suoi. Lo saluta con fare cordiale e si presenta: un affabile colloquio da capitano a capitano. «Era l’ora che arrivasse! — dice. — Qui non siamo sicuri della vita, ci costringono a difenderci come si fosse in guerra!». Mostra sul camion il caduto fascista: il giovane Ivo Saletti studente di Grosseto. «Noi — aggiunse il Castellani — dobbiamo subito rientrare in città. Senza di voi non ci fidiamo: esigiamo una scorta per evitare nuove imboscate». Il capitano dei carabinieri non ha nulla da eccepire; mette a disposizione dei fascisti i suoi militi che accompagnano il glorioso drappello sino al rientro in Grosseto.
1 Nobile decaduto, capo dei fasci toscani. Il Perrone Compagni cadrà poi in disgrazia e verrà allontanato, allorché il fascismo ebbe bisogno – momentaneamente – di mettersi il doppiopetto (N.d.R.).
[Tratto da La maremma contro il nazifascismo, a cura di Nicla Capitini Maccabruni, Grosseto 1985].
Piccola appendice:
Le vittime sono : Angelo Barni, Antonio Fabbri (68), Francesco Minoccheri (39), Tommaso e Guido Bartaletti, Renato Checcucci, Luigi Nativi (37), Giuseppe Regoli e Giovanni Gori che tra l’altro non risultano iscritte ad alcun partito sovversivo. Particolarmente efferato è poi l’omicidio del calzolaio libertario e invalido Vincenzo Tacconi (27), detto Grucci perchè mutilato di guerra e privo di una gamba, costretto quindi ad usare le grucce: rifugiatosi in cantina per l’incendio della sua casa viene visto comparire sulla porta che ardeva e gli vengono sparati contro molti colpi di rivoltella ma, poichè ciò non basta a finirlo, viene sgozzato (www.radiomaremmarossa.it)