Figlio di Eusebio e di Maria Mancini, nasce a Certaldo (Firenze) il primo agosto 1895 e fa l’operaio.
Secondo di sei figli di una famiglia di tradizioni sovversive, come il padre e i fratelli abbraccia ben presto le idee anarchiche. Chiamato alle armi dopo la dichiarazione di guerra all’Austria – Ungheria, abbandona, il sette aprile 1918, il 7° Reggimento bombardieri e il sedici novembre 1918 viene condannato a morte in contumacia dal Tribunale di guerra di Bologna, per diserzione “in faccia al nemico”. Amnistiato, grazie al provvedimento approvato dal governo di Nitti il due settembre 1919, fa ritorno a Certaldo, dove fonda la Lega dei barrocciai e degli impagliatori ed è, insieme ai familiari, tra i promotori di un gruppo libertario che aderisce all’Unione anarchica italiana. Il 22 febbraio 1921 viene di nuovo chiamato a rispondere della diserzione e il Tribunale militare di Firenze lo condanna a un anno di reclusione.
Il 28 febbraio rimane coinvolto negli incidenti di Certaldo, in cui trova la morte anche il suo fratello maggiore, Ferruccio, e rimangono feriti i carabinieri Lorenzo Sebastiano e Antonio Minnucci. Datosi alla macchia, insieme al fratello Oscar e ad altri sovversivi certaldesi, Tito è uno dei componenti della “Banda dello zoppo”, un gruppo di rivoluzionari, protagonisti di una dura guerra di classe, ai quali vengono attribuiti un’infinità di furti, rapine, sequestri, tentati omicidi e omicidi in almeno cinque province della Toscana. Scioltasi la “Banda” nel mese di giugno, Tito e Oscar si rifugiano in Svizzera il 5 luglio 1921, ma vengono arrestati ed estradati in Italia il 28 agosto.
Detenuto a San Miniato, Tito passa nelle carceri di Pistoia, prima di essere destinato a un reclusorio del nord, ma il 19 marzo 1922, durante la traduzione, evade dal treno, mentre attraversa la città di Bologna, riuscendo ad espatriare clandestinamente e, dopo varie peripezie, a rifugiarsi in Russia. Il primo maggio 1925 viene condannato, in contumacia, all’ergastolo per quattro omicidi volontari, trasporto di bombe, delitti contro la proprietà e altro (una sola udienza per due ergastoli e più di 70 anni di carcere), e il 24 luglio 1928 è schedato. La Prefettura di Firenze lo descrive come “un prepotente” e “un violento”, ma riconosce che si comportava bene in famiglia, mentre, sul “versante politico”, faceva propaganda delle sue idee, prendeva parte a tutte le dimostrazioni sovversive e aveva “molta influenza” tra i compagni, nella penisola e all’estero.
Stabilitosi a Jalta, in Crimea, Tito fa l’ortolano per qualche anno, poi, ceduti arnesi e granaglie, si sposta in un villaggio del Volga, accanto al Mar Caspio, dove lavora da trattorista. Le vicende di Tito e dei suoi familiari suggestionano un noto anarchico russo, Herman Sandomirskij, che collabora con i bolscevichi, il quale dedica alla loro storia il racconto: “La famiglia Scarselli”, della serie: “I miei incontri”. Dopo aver accennato al barbaro assassinio di Spartaco Lavagnini a Firenze, Sandormirskij narra:
“Se il vecchio Scarselli non apparteneva a nessun partito, altrettanto non si può dire dei figli adulti. Questi avevano seco rivoltelle e bombe a mano. La lotta con la banda fu crudele e ineguale. Uno dei figli, Ferruccio, fu ucciso davanti agli occhi di tutti; gli altri furono feriti e arrestati. Il padre sopportò la morte del figlio stoicamente, ma le torture e gli scherni contro i figli carcerati gli fecero perdere la ragione. Ciò non impedì ai fascisti di tenerlo tre anni in prigione. Ora egli è deceduto. Il figlio maggiore, Tito, fu condannato al carcere perpetuo (ergastolo)… Tito Scarselli mi raccontò molte cose interessanti riguardo ai perfezionamenti introdotti dai secondini fascisti… Due volte egli, condannato al carcere perpetuo, riuscì a scappare dalle mani dei carnefici fascisti. La prima volta fuggì nella Svizzera democratico – borghese, che si affrettò ad estradarlo. Mandato per la seconda volta al carcere perpetuo ebbe l’abilità di evadere dal convoglio cellulare durante la sosta alla stazione di Firenze. Il suo successivo viaggio fu molto complicato e penoso. Dall’Austria, dicendosi prigioniero di guerra, andò fino a Celiabinsk, e poi venne in Crimea. Io feci la sua conoscenza a Mosca e due anni fa lo rividi a Jalta… Nelle vie di Jalta si può spesso incontrare Tito, bello ed aitante, che porta sulla testa un canestro colmo di pomidori, frutto della sua fatica. Tito è conosciuto ed amato a Jalta…”
Il cinque novembre 1929 Tito racconta al fratello Egisto, detenuto in Italia, come vive in Russia e quali sono le sue speranze: “ Io lavoro in una organizzazione governativa agricola, addetto al trasporto del materiale con trattrici, il lavoro non è pesante, si lavora otto ore al giorno, ma quello che è pesante è la malinconia di vivere in queste steppe, molto distante dalla ferrovia, senza altra soddisfazione che quella di lavorare e dormire. L’inverno è molto lungo e fanno fino a 40 gradi di freddo…” Poi aggiunge: “Non temere e per questo non abbandonarti. Io mi trovo dall’altra parte dell’Oriente, penso che non starà molto a scatenarsi qualche altro cataclisma, le corde sono molto tese, noi dobbiamo attendere che si strappino, anzi lavoro solo per questo affinché si giunga al bivio, o nuotare o affogare, così sarà finita questa vita d’apatia, noiosa, intollerante per i nervi, o andremo raminghi al Polus Nord o al creatore, o a passi giganti salperemo gli Urali e traverseremo il Mar Nero incontro al nostro desiderio”.
Gli aiuti in denaro, che manda ad Egisto, vengono spesso sequestrati dalle autorità italiane, suscitando le sue proteste, perché quel denaro è il ricavato della vendita dell’orto, e non proviene dal soccorso rosso. Al principio del 1933 Tito muore sul lavoro per lo scoppio di una caldaia a vapore o per uno scontro ferroviario. La Prefettura di Firenze lo include, comunque, qualche mese dopo, fra i sovversivi attentatori residenti all’estero. Il quattro giugno 1934 il fratello Oscar comunica, con una lettera tristissima, alla sorella Ines Leda che
“ Tito è morto da circa un anno e mezzo; ricevetti il telegramma che era moribondo, ma fui impossibilitato di vederlo, mi fu comunicato che era restato vittima di un incidente di lavoro. Questo è tutto quello che so. Tito lo lasciai nel 1931, era molto pure lui dimagrito e colpito da indebolimento organico… Quando mi rispondi fammi sapere dove si trova il fratello Egisto, Ida e Giacomo e se il babbo vive ancora, non mi negare niente, ormai il mio cuore non palpita più, si è pietrificato”.
FONTI: ACS, CPC, ad nomen; “Il libertario”, n.748, 15 gen. 1920; I capi della banda dello “Zoppo” giudicati in contumacia. Altre due condanne all’ergastolo, “La nazione”, n.105, 2 mag. 1925; Bonsignori, Corinna. Test., Lyon, 4 apr. 1976, AB, M7, 7; Antifascisti nel Casellario politico centrale / a cura di Simonetta Carolini, Carla Fabrizi…, Quaderno n.16, Roma: Anppia, 1994, p.364; Lagorio, Lelio. Ribelli e briganti nella Toscana del Novecento. La rivolta dei fratelli Scarselli e la banda dello Zoppo in Valdelsa e nel Volterrano, Firenze: L. S. Olschki, 2002.
[ Scheda di Fausto Bucci e Simonetta Carolini per Radiomaremmarossa.it ]